giovedì 6 marzo 2014

Dipende da quello che si vuole

Oggi vi propongo questo articolo che ho trovato su www.mentecritica.net e che trovate con questo titolo: te la do io l'america. Lo trovo interessante e fuori dal solito coro.
Buona lettura!


Io me lo ricordo Silvio Berlusconi, da Vespa, mentre disegna col pennarello strade e ponti per rendere più comoda e più facile la vita degli italiani. E risento con raccapriccio il controcanto delle vestali: meno male che Silvio c’è!
Me lo ricordo Beppe Grillo mentre emerge dalle acque dello Stretto e grida: mandiamoli a casa tutti! Te la do io l’Europa! E i coreuti che riprendono il concetto e anticipano l’evento: li stiamo mandando tutti a casa!
Sono di ieri le promesse di Pirgopolinice-Renzi: ve la do io la legge elettorale!, che già oggi hanno quell’aria un po’ moscia delle lattughe sui banchi del mercato, a mezzogiorno. Mentre il Popolo delle Primarie, in attesa di vedergli cavare il coniglio dal cilindro, impaziente freme: altrimenti cosa l’abbiamo messo lì a fare?
Troppi pensano che si debba ricominciare da zero, che non valga la pena di manutentare questo paese partendo da quello che c’è; pensando di poterlo rivoltare, senza spettinarlo troppo, nel giro di qualche settimana. Troppi pensano che il problema sia etico, una semplice conseguenza del malaffare che impregna le classi dominanti, della combutta che unisce la classe politica ai poteri forti; il risultato della troppa CO2 che abbiamo messo in circolo, la poca attenzione per il prossimo, il risultato di un modello di sviluppo insostenibile
Non dico di no. Né intendo difendere la classe politica, oppure i poteri forti, che si difendono benissimo da sé, né oppormi in nessun modo alla decrescita felice. Quel che mi preme è il sospetto che alla base del nostro declino ci siano altre questioni, che poco hanno a che fare con l’etica, con la classe politica corrotta, con i poteri forti e con le emissioni di CO2.
Faccio un salto indietro, per spiegarmi meglio.
Quando andavo a scuola, molti anni fa, e avevo quell’età in cui ci si pongono tutte quelle domande che sappiamo, che poi ci trascineremo irrisolte per tutta la vita, una delle minori, alla quale tuttavia non sapevo rispondere, era: ma com’è che in un certo periodo della nostra storia, non prima, non dopo, ci piovve addosso quell’incredibile quantità di pittori, scultori, architetti, letterati, scienziati, poeti e poetesse e via discorrendo, di cui danno conto i libri di storia? Senza apparente motivo, quasi che il nostro paese, tra la fine del trecento e gli inizi del seicento si fosse trovato per puro caso in una felicissima congiunzione astrale e baciato in fronte dalla fortuna.
Quando ponevo la domanda mi sentivo rispondere che le cose della cultura sono così, oggi a me, domani a te. Vai a sapere. Solo in seguito mi nacque il sospetto, leggiucchiando qua e là, che non si trattasse di un regalo e neppure di un caso. Una deliberazione del senato veneziano del 1454 informa, per esempio, che, all’epoca, il “ducatus per totum orbem erat in maximo culmine et fama”. E se il ducato spadroneggiava nel mediterraneo orientale, dall’altra parte la faceva da padrone il fiorino. Due monete che, allora, in Europa, nel parlare comune, erano sinonimo di moneta d’oro. Firenze era il cuore pulsante dell’economia europea, uno dei principali centri della prima accumulazione capitalistica.
Qualcuno potrebbe ribattere che erano le scienze, le lettere e le arti, ovverosia la cultura, a gonfiare le vele dell’economia; e però una simile convinzione parrebbe essere smentita dal fatto che, quando, in seguito, l’asse economico del mondo si spostò, per ragioni non culturali ma logistico-commerciali, e in seguito e di conseguenza manifatturiere, la cultura rapidamente lo seguì. Lo spostamento cominciò a partire dal sedicesimo secolo e si completò nella prima metà diciassettesimo.
Perché anche la storia ha la sua isteresi. I risultati non si vedono subito. Anzi, sovente si vedono quando è tardi.
Dice Machiavelli, che di tutto può essere accusato tranne che di non saper leggere le cose della storia: “E di questo avviene quel che dicono i medici del tisico, che all’inizio la sua malattia è facile da curare e difficile da diagnosticare, ma, col passare del tempo, non avendola diagnosticata fin dall’inizio né curata, diventa facile da diagnosticare e difficile da curare”
È da un pezzo che ho l’impressione che stiamo vivendo qualcosa di simile. Qualcuno dice: vabbè, ma non è il motivo principale. Pochi sono disposti a trarne le conseguenze. Perché, forse, se si traessero, si dovrebbe ammettere che quel che ci aspetta è una lunga traversata del deserto. Quelli che si dicono impegnati contro l’andazzo delle cose contrattaccano con aria bellicosa: e allora? cosa dovremmo fare? stare a guardare?
No, naturalmente. Potendolo bisognerebbe provare a fermare la deriva dell’asse economico, prima, poi a invertirne il moto e per finire rimetterlo al suo posto, dove si trovava. Se una simile operazione, per esempio, l’avessero fatta nei primi del cinquecento, hai voglia quanti Michelangelo e Raffaello in più avremmo avuto.
Ma ci sono delle cose che non basta volerle, per poterle fare.
Ci sono delle malattie che non si possono curare con i pannicelli caldi. Non basta dire: camminiamo col gilet in spalla a fianco del quarto stato, la nostra decadenza è figlia dell’egoismo, dell’ambizione, della mancanza di solidarietà, di quei vecchi rincoglioniti che si perdono via davanti alla televisione. La televisione c’è anche là dove non hanno i nostri problemi.
Non risulta che nella Firenze dei Medici, quel che c’era di meglio nel XIV-XV secolo, si volessero particolarmente bene, o fossero particolarmente onesti. Anzi, viene proprio da lì l’esprit florentin, cinica propensione al tradimento e al trasformismo, che diventerà l’etichetta che ancora ci portiamo addosso.
Succede semplicemente che nel XVI secolo alle stoffe pratesi e fiamminghe si affianchino quelle inglesi e olandesi; alla seta lucchese, la seta spagnola e francese.
Capita che all’inizio del XVII secolo la borsa di Amsterdam divenga il maggiore centro di raccolta e di mobilitazione dei capitali necessari a finanziare le attività legate alla produzione manifatturiera e ai servizi. L’asse economico s’è spostato. Ciao Venezia. Ciao Firenze. Leonardo e Michelangelo non nascono più qui.
Per caso? Oppure aveva ragione Marx quando sosteneva che non sono le idee ma è l’economia il motore del mondo? Che quelle vengono da questa, non viceversa. Che non vuol dire che si considera l’Economia come la cosa più importante, bensì il concime senza del quale i fiori crescono stenti, o non nascono affatto.
Poi dipende sempre da quello che si vuole. Se si vogliono auto, riscaldamento centralizzato, cure mediche, abiti, scarpe, buone scuole, soldi per la ricerca e una vacanza all’anno in un bel posto, in questo caso non servono i profeti, gli asceti, i poeti, gli affabulatori, i prestigiatori, i guitti, e neppure i puri di spirito. Serve un’economia solida, che si costruisce partendo da quello che si ha, non da quello che si dovrebbe avere. Anche quando possa sembrare del tutto inadeguato alle proprie aspirazioni.

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